domenica 29 dicembre 2013

Super


Solita premessa sugli spoilers: capitano, guardatevi prima il film o stringete i denti.

Frank Darbo (un credibilissimo Rainn Wilson, forse nella sua migliore performance) è un uomo comune, fin troppo: da sempre maltrattato, vessato e sfruttato dagli altri, pare aver finalmente trovato la sua via in compagnia della bella moglie Sarah (Liv Tyler). Quando però poi il passato da tossicodipendente di Sarah ritorna sotto forma del mellifluo Jacques (Kevin Bacon, sul pezzo come sempre), tutto crolla: lei ricade nelle droghe e scappa con la sua nuova fiamma e lui non ha più niente a cui aggrapparsi. Una rivelazione (o presunta tale) da parte “dell’indice di Dio”, però, fa risalire in sella Frank, vestendo però i panni di un violento vigilante mascherato, Saetta Purpurea, che, con una svitata fanatica di fumetti nei panni di assistente al suo fianco (una lunatica Ellen Page), cercherà giustizia.
Tutto in regola, no? Una genesi coi fiocchi per un classico supereroe, magari con quel tocco di dramma che ci piace tanto? No, Super è tutto il contrario. Super è (insieme al notevole Chronicle) il requiem dei cinefumetti. Oltre a questi due titoli, tutto è superfluo, tutto è stato detto.
Partiamo dalla base: James Gunn è un regista proveniente dalla scuderia della Troma, una delle più eccessive e deliranti case di produzione indipendente, abituata quindi al basso budget, esperta nello stravolgere concetti cari alla pop culture (come la storia d’amore di matrice shakespeariana con Tromeo and Juliet e la figura del supereroe con la saga di The Toxic Avenger, in particolare il primo e il quarto capitolo) con una sana dose di splatter, oscenità e politicamente scorretto, il tutto contenuto, nella quasi totalità delle numerose pellicole, da una regia e una messa in scena piuttosto solida, a dispetto dei pochi mezzi e delle pessime doti recitative degli interpreti.
Già questo dovrebbe dire qualcosa sul risultato finale di questo film, in cui Gunn non dimentica di certo delle sue origini.
Il regista.

L’atmosfera è asfissiante, eccessiva e disturbante per tutta la sua ora e mezza, pur non mancando un massiccio uso di gag black humor che però lasciano sempre il dubbio se piangere o ridere, se entrare ancora di più nelle vicende o se distaccarcene disgustati: è un dualismo che attraversa tutta la pellicola, come nella scena di rivelazione divina trasformata in una sorta di tentacle rape o nello sviluppo del protagonista stesso, sempre in bilico se diventare il nostro eroe personale o il nostro peggior, instabile, iperviolento, incubo.
Ed è proprio Frank il fulcro del discorso dualistico: le visioni (che lui afferma di avere avuto “per tutta la vita”) sono il condizionamento di quella tv spazzatura sotto forma di delirio religioso su una mente instabile o vero verbo divino (“Signore, mi hai chiamato tu ad essere Saetta Purpurea o è solo una mia fantasia?”)? Fino a che punto è giusto punire ogni manifestazione del male? Quando questa azione passa da eroica a malvagia? Qual è la linea di confine tra supereroe e villain?
Frank è chiaramente uno psicopatico, così come psicopatica è Libby/Saettina, ma loro sono i buoni, che ci piaccia o no. In questo modo, con questo apparentemente semplice discorso Gunn ha destrutturato, analizzato e messo in discussione (e non è una discussione che si può risolvere facilmente) l’essenza stessa del supereroe, del mascherarsi per punire il crimine, del fine che giustifica i mezzi (?) come, ad esempio, grandi opere a fumetti come Watchmen e Il Ritorno Del Cavaliere Oscuro avevano già fatto negli anni ottanta, con pochi (e deludenti) strascichi di questo messaggio nelle trasposizioni cinematografiche ad opera di Zach Snyder e Chistopher Nolan.

Da questo punto di vista Super è l’esatto erede di quello che hanno cercato di dire Alan Moore e Frank Miller, specialmente quest’ultimo riguardo alla figura di Batman: l’unica risorsa contro il crimine a noi disponibile è un vecchio fascista individualista, anarchico e iperviolento, con una morale deviata, ma è appunto la nostra unica risorsa. Che fare?
Qui Frank, nel suo piccolo, trova, non senza sbandate non indifferenti, la sua “via” e porta ad una sua conclusione la sua vendetta, ma non senza sacrifici: Saettina muore (attenzione all’assenza di drammatizzazione nella sua morte: stiamo guardando l’evento con gli occhi di Saetta Purpurea, la nostra attenzione è su Sarah, la “principessa da liberare”) e solo dopo, in una toccante scena in cui la macchina da presa indugia sul cadavere di lei posato con cura da Frank nel vano dell’auto, quelle stesse mani che fino ad un momento prima avevano portato in salvo la moglie si accorgono che forse, forse, la vera anima gemella era Libby, non Sarah, ma ora è troppo tardi e l’uomo torna a casa, conducendo la (ormai ex-) moglie verso un futuro non in sua compagnia.
“A volte mi sembra che la felicità sia sopravvalutata […] le persone felici sono arroganti.”. Frank resta solo, ma non senza speranza: se il tuo destino non è in grandi eventi, non è nel ruolo di protagonista, cosa ti resta? Le piccole cose, questa è la vera Rivelazione. Dai due momenti più belli della sua vita, inizia a “collezionarne” di nuovi, sempre di più e la sua vita diventa improvvisamente piena. Frank sorride e questo ci basta.
Voto: 8

sabato 28 dicembre 2013

BRIT FLOYD, P-U-L-S-E 2013




La giovane storia dei Brit Floyd inizia nel gennaio del 2011, quando si esibiscono per la prima volta a Liverpool. Nel giro di neanche tre anni suonano di fronte a mezzo milione di fan e quest’anno, dopo i sold out dello scorso inverno, tornano con un nuovo tour dal nome P-U-L-S-E 2013 con tre tappe italiane a Milano, Roma e Firenze rispettivamente il 25, 26 e 27 novembre.

L’evento fiorentino è stato  probabilmente quello ospitato nella location più modesta, il teatro OBIhall, con una capienza di neanche 2000 persone che ha però contribuito a creare un’atmosfera quasi intima con la talentuosa cover band britannica. Per chi avesse già assistito ad uno spettacolo dei Brit floyd avrebbe potuto amareggiarsi vedendo il palco piuttosto piccolo e spoglio, privo dell’arco e la sfera che avevano caratterizzato le scenografie dello scorso anno e che obbiettivamente rendono l’atmosfera ancora più suggestiva, ma si sarebbero dovuti presto ricredere. La band composta da Damian Darlington (direttore artistico, voce, chitarra e lap steel), Ian Cattell (basso, voce), Bobby Harrison (chitarra), Arran Ahmum (batteria), Rick Benbow (tastiere) e le coriste Rosalee O'Connell, Jacquie Williams, e Ola Bienkowska ha dato vita ad uno spettacolo mozzafiato riproducendo magnificamente la musica ma anche i coreografici e psichedelici giochi di luce dei Pink Floyd. Uno spettacolo di oltre tre ore in cui hanno ripercorso i più grandi successi di quattro “album pilastri”  nella discografia dei Pink Floyd: primo fra tutti  The wall aprendo con un impeccabile In the flesh. A seguire The dark side of the moon ed Animals con un’originalissima ed apprezzata esecuzione di Welcome to the machine (l’unica, durante il concerto,  rivisitata dalla band); e per ultimo The division bell. La ciliegina sulla torta:  la ripresa delle canzoni che non potevano mancare e che erano state saltate nel ripercorrere gli album (cosa che aveva preoccupato il pubblico fiorentino) come I wish you  were here o Confortably numb. A chiudere, luci soffuse in mezzo al palco per Ian Cattell ed il suo basso che intona l’intro di un’ a dir poco esplosiva esecuzione di Run like hell.


Alla base del successo dei Brit Floyd c’è uno studio maniacale e perfezionistico della musica dei Pink Floyd (di cui Damian Darlington è il principale artefice), che per gli amanti del genere non può non stupire. Certo, sono pur sempre una cover band, ma il binomio perfezione dell’album e potenza del live li porta al primo posto in questa tipologia di band. Qualsiasi nostalgico non può desiderare niente di meglio e per i più giovani, che non hanno avuto la possibilità di conoscere direttamente la band di Syd Barret, è l’occasione per vivere in nuce questa musica, per regalarsi qualche ora di pura emozione, per chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dagli assoli di chitarra.

mercoledì 11 dicembre 2013

The Grey Album


A me il crossover piace. Parlando, per prima cosa, da batterista, il mio gusto estetico, senza gli apporti di gruppi quali Rage Against The Machine e Red Hot Chili Peppers (fino a Californication, poi è tutta un’altra cosa) ma anche da collaborazioni celebri come Aerosmith-Run Dmc oppure Anthrax-Public Enemy, sarebbe privato di una componente molto importante, ma anche uscendo dalla semplice commistione di rap con rock/metal, tutto il miscuglio di due generi musicali solitamente mi piace. Per questo l’incontro tra due giganti del proprio genere, i santissimi Beatles da una parte e Jay-z dall’altra, in particolare il White Album dei primi unito al Black Album del secondo, non poteva lasciarmi indifferente. Lo avrei schifato oppure elevato ai massimi livelli?
I re del pop anni ‘60 (quello buono) e uno dei massimi signori della east coast insieme? Ebbene sì.
Pare difficile da credere ma i due universi si equilibrano perfettamente: le basi dei Fab Four, opportunamente mixate e ritmate, accompagnano l’incedere aggressivo del rapper di Brooklyn in perfetta armonia, senza mai avere un momento calante, ma anzi nella continua sensazione di stare sentendo qualcosa di familiare e allo stesso tempo completamente nuovo. Splendido.
Tutto questo lavoro di mescolanza tra generi, una postproduzione incredibile, nonché l’intuizione geniale che ne sta alla base, appartengono a Danger Mouse, nome d’arte di Brian Joseph Burton, giovane produttore di artisti del calibro di Beck, Gorillaz, The Black Keys, U2, Norah Jones, nonchè membro fondatore dei celebri Gnarls Barkley, con collaborazioni personali di artisti quali Jack White, leader degli Shite Stripes, o David Lynch, poliedrico artista a tutto tondo (e quindi con una visione tutt’altro che bidimensionale della musica, non c’è dubbio).
Da sinistra: David Lynch, Danger Mouse e Mark Linkous, leader degli Sparklehorse.
Il dubbio potrà sorgere a chi, come me, il rap non lo mastica, oppure a chi, al contrario, di pop rock d’annata non se ne intende, ma non preoccupatevi, ascoltate e basta: per quanto il White Album lo sapessi quasi a memoria, di Jay-z ed in particolare del Black Album non conoscevo quasi nulla (avevo già sentito solo 99 Problems), l’impatto di questo album è stato poderoso, provare per credere.
Alcuni esempi? Uno su tutti, il clavicembalo barocco che apre Change Clothes, perfetto, ma anche la ricchezza che trae 99 Problems dalla base di Helter Skelter, elevandola ad un altro livello, oppure la fantastica voce e il pianoforte di George Harrison in While My Guitar Gently Weeps a supportare What More Can I Say, con un attacco di Jay-z talmente perfetto che sembra essere questa la versione giusta della canzone, e pure l’abilità con cui è stata trasfigurata Happiness Is A Warm Gun in coppia con Moment Of Clarity, donando a quest’ultima un pathos che prima non c’era.
Ecco, proprio di pathos si parla. Infatti, il difetto che chi non mastica il rap come me lamenta a questo genere è la monotonia: per quanto una base campionata sia ben costruita, essa resta comunque una “risorsa” secondaria al servizio della fruibilità ritmica e della voce, che ne fa da padrone. Ma, se aggiungiamo pure che un rap in lingua inglese non è, per usare un eufemismo, di immediata comprensione, al povero ascoltatore italiano (ma pure anglofono, visto il pesante slang da Brooklyn) resta ben poco di cui fruire.
Come risolvere questa situazione? Aggiungendoci personalità, pathos (appunto), sentimento, in una parola, melodia. E qui entrano in gioco George, Paul, Ringo e John. Il gioco è fatto. Per fortuna che qualcuno se n’è accorto e che quel qualcuno sappia quello che fa.
Unico nel suo genere, da non perdere.
Voto: 8

The Bloody Beetroots


Sir Bob (Cornelius) Rifo, aka The Bloody Beetroots, è un artista italiano (nato a Bassano) a tutto tondo. In una delle ultime inedite interviste ha rilasciato un excursus autobiografico dalla sua infanzia agli ultimi anni di produzione, fino a convergere nell'album rivelazione di questo Settembre: "Hide".
Bob cominciò ad entrare nel mondo della musica a soli 7 anni, dopoche i suoi genitori lo avevano iscritto al conservatorio (nei corsi di chitarra acustica e canto) al fine di combattere la sua "timidezza" (caratterstica poco riconosciuta dai media e dai fans, vista l'energia che sprigiona ad ogni live e in ogni suo componimento). Fin da piccolo era creativo e sognava di poter comporre della musica propria e innovativa(direi che il sogno si è avverato). Superata l'adolescenza Bob molla il conservatorio e comincia la sua carriera di compositore. All'inizio il suo desiderio era quello di creare una musica forte, arrogante e pretenziosa, trasmettendo pura energia all'ascoltatore. Fu così che Bob esordì con una band punk rock piuttosto aggressiva e bizzarra; il complesso non ebbe particolare successo ma evidenziò ugualmente la vivacità , la grinta, e soprattutto la  creatività fuori dal comune dell'artista veneto.
Gli insuccessi del punk rock lo portarono a voltare pagina cambiando radicalmente il genere della sua produzione musicale: nasceva così il progetto "The Bloody Beetroots".
E' il 2007, quando Rifo, affiancato dal disc jockey Tommy Tea, comincia la sua carriera di producer di musica elettronica. Il duo inizia ad entrare in voga a suon di electro per i locali italiani, distinguendosi anche per lo stile grazie alle caratteristiche maschere di Venom (uno dei più rilevanti antagonisti del supereroe Spider Man). In seguito i Bloody decisero di allestire uno studio di produzione e registrazione, arricchito da numerosi sequencer analogici e da sintetizzatori molto vari e complessi. Bob, in quanto artista, riesce ad entrare in confidenza facilmente con qualsiasi tipo di strumento in grado di dar vita ad un suono. E difatto il duo arrivò a produrre la bellezza di ben 45 remix in soli 2 anni (2007 e 2008); un dato spaventoso, ed è altrettanto spaventoso il successo quasi immediato che ottennero all'interno dell'electro house internazionale del momento, fino a raggiungere l'apice della fama mediante l'importante collaborazione con lo statunitense Steve Aoki (ideatore della label "Dim Mak") con il brano "Warp" (2009). Nonostante quest'ultimo successone, la loro produzione che meglio li rappresenta è l'album "Romborama" (2009): un album a dir poco sbalorditivo, ricco di sfumature derivanti da svariati generi musicali, affermando l'innata originalità di Bob che ancora oggi sorprende anche gli ascoltatori di qualsivoglia genere e periodo musicale.
Nella seconda fase della loro produzione i Bloody iniziano a muoversi anche in altri sottogeneri elettronici spaziando dall'indie dance/nu disco al progressive, all'elettronica sperimentale, continuando a rinnovarsi e trascurando le tendenze del momento. Nonostante l'abituale utilizzo di nuovi ed inesplorati sound, il duo manteneva un minimo comun denominatore: il loro stile indistinguibile e ineguagliabile, che associa bassi aggressivi e suoni "violenti" a melodie rilassanti e talvolta nostalgiche che favoriscono l'introspezione. Il progetto "The Bloody Beetroots" con gli anni si espanse e mutò l'aspetto del live abolendo il dj set e adoperando gli strumenti veri e propri; infatti Bob afferma che "la musica vera è quella degli strumenti, non quella dei synth"; e proprio per questo, a partire dal 2010, i Bloody si esibiscono live (per i primi due anni lo spettacolo live si chiamava "Death Crew 77"): Bob come chitarra e voce,  Mad Harris alla tastiera e Edward Grinch come terzo membro alla batteria (inizialmente il batterista era Jacopo Battaglia aka Battle ).
Negli anni seguenti i Bloody si incentrarono proprio sulla perfetta esecuzione delle loro performance dal vivo, tralasciando la produzione e sfornando solamente qualche singolo, di gran lunga meno sensazionali rispetto alla produzione precedente (conservando ad ogni modo il loro stile e la loro energia).
Successivamente Bob, dopo l'enorme successo a livello globale, esaltando le folle dei club e dei festival più importanti al mondo, sentì il bisogno di tornare a produrre un album in grado di ribadire il suo genio compositivo; fu così che nacque "Hide".

Già dal 2012 i Bloody, dopo aver firmato il prestigioso contratto con l'Ultra Records, rilasciarono degli EP (come "Rocksteady" e "Chronicles of a fallen love") diversi dagli ultimi 2 anni e nuovamente originali ed incisivi: i Bloody erano tornati. Quest'anno Bob, grazie ad "Hide", si ritrova nuovamente tra i big dello scenario della musica elettronica; l'album possiede 15 canzoni e ciascuna possiede un suo filo logico e una sua anima indipendente; a far da mediatore fra i brani persiste il solito stile di Rifo, ma rinnovato. Eh si, l'album è proprio l'emblema del rinnovamento di Bob, che ha saputo mantenere la vecchia aggressività in stile electro conciliandola a nuovi sound (specialmente distorti) in stile complextro (sottogenere dell'electro, è molto recente, caratterizzato dalla variazione continua di suoni per frequenza e ritmo; è un connubio fra l'electro e la dubstep). E non finisce qui, la vera innovazione dell'album è la collaborazione di Rifo con artisti inediti e di fama mondiale quali Theophilius London, Tommy Lee, Greta Svabo, Dennis Lyxzèn, Youth (creatore dei Killing Joke ) e soprattutto uno dei più importanti personaggi della musica del secondo 900': Paul Mc Cartney (collaborando come vocal nel brano "Out of sight"). L'album contiene brani molto aggressivi ed altri più melodici e "delicati", ma sono tutti frutto del desiderio primario di Bob: rinnovare la musica elettronica (e non) del nuovo millennio e dare una forte scossa alle nuove tendenze dei sottogeneri house sempre più inclini a sound e preset plastificati e poco elaborati (come il progressive e la deep house).
Bob Rifo è in continuo mutamento e movimento: egli riesce a passare da un sottogenere all'altro ampliando la sua produzione musicale, e allo stesso tempo riesce a migliorarsi scovando nuovi sound e abbellendo la performance live, ormai adorata da tutti i suoi fans. "Hide" dimostra che Bob c'è, ed è disposto a dedicare anima e corpo al fine di creare un genere suo, una nuova impronta nello scenario della musica contemporanea e di dare un chiaro e importante messaggio: gli artisti devono comporre ciò che più li soddisfa, ciò che sentono dentro, ciò che meglio li rappresenta, anche andando fuori dagli schemi, e rifiutando le mode e le tendenze del momento.

martedì 3 dicembre 2013

come scegliere la racchetta da tennis



Ammetto in partenza che il titolo di questo breve articolo è un po’ fasullo, nel senso che non vi darò informazioni specifiche e tecniche sui centinaia di modelli esistenti;  aimè non ne ho le competenze! Vorrei però trasmettere un concetto che ritengo fondamentale per la scelta di questo complesso strumento qual è la racchetta da tennis.

Prima di tutto prendete coscienza che nel mondo del tennis l’immagine conta davvero tanto. Sono pochi gli sport che vedono le stesse sbalorditive cifre che si aggirano nel tennis da parte di sponsor e grandi marche i quali tentano un connubio con lo stile, la filosofia di gioco, ma anche lo stesso modo di fare  di un giocatore. Ma prendiamo in analisi le racchette: sappiamo tutti quanto sia difficile sceglierne una; ci vuole esperienza, sensibilità ed una certa competenza. Ci si può perdere nel tentativo di capirne qualcosa, allora le grandi marche, per non mettere in crisi la clientela, si affidano all’immagine dei giocatori che sponsorizzano. Ed ecco che il complesso mondo delle racchette finisce per semplificarsi in stereotipi. Faccio un esempio pratico: Babolat e Wilson si fondano sui due loro giocatori di punta:  Nadal  e Federer. Infatti se la Babolat viene generalmente collocata come una racchetta per un gioco di sostanza, da fondo e non troppo tecnico, la Wilson è tipica del giocatore aggressivo, dotato di una sensibilità di tocco che gli permette di chiudere lo scambio anche a rete. Niente di più sbagliato! Questi sono luoghi comuni per facilitare la scelta della racchetta; basti pensare a Del Potro: gioca da sempre con una Wilson ma non è di certo un giocatore che si affida alle sue doti tecniche, anzi probabilmente è il tennista che più di tutti fa leva sulla forza bruta dei suoi colpi per portare a casa i match. Oppure dall’altra parte un Tsonga che gioca con una Babolat Pure Strike ma non rinuncia ad esibirsi nel gioco di volo in maniera eccellente (come la scuola francese insegna). E ancora un Jerzy  Janowicz, capace si di servire con un’ Aero Pro  ai 230 km/h, ma anche di eseguire drop shot millimetrici.


Per scegliere la vostra racchetta toglietevi dalla testa questi stereotipi e convincetevi che all’interno di ogni marca esistono modelli diversissimi tra loro che possono soddisfare la tipologia di gioco di tennisti altrettanto diversi. Poi sono il primo a dire che ogni tanto l’acquisto emozionale è più che lecito e in alcuni casi può essere anche efficacie. Si sa che nel tennis la psiche è una componente fondamentale e allora come biasimare chi sente di poter  arrivare su qualsiasi palla con l’ Aero Pro di Nadal tra le mani, o chi, con la Pro Staff di Federer, sogna volè  d’altri tempi.




sabato 30 novembre 2013

10 anni di EdBangers

L' Ed Banger Records è senza dubbio una delle più innovative e importanti labels di musica elettronica del nuovo millennio, nonchè un punto di riferimento essenziale per l'intera cultura dell' Indie Dance. Nasce nel 2003, a MonMatre (uno dei quartieri più vivaci di Parigi) grazie all'iniziativa dell' ex manager del noto e prestigioso duo amercano Daft Punk, Pedro Winter aka Busy P. L'etichetta francese non ebbe immediatamente successo, anzi. Per i primi 4 anni non vi furono incassi rilevanti, nonostante Busy avesse "allestito" un team di producer eccezzionali (anche se all'epoca poco noti) quali SebastiAn, Mr.Oizo, DJ Mehdi, Busy P stesso e in particolare il duo rivelazione che maggiormente rappresenta l'etichetta parigina e lo stile indie dance francese: i Justice.

E fu proprio grazie a loro che l'Ed Banger cominciò a metter piede sullo scenario della musica elettronica mondiale. Il loro album di debutto del 2007 ,"Cross"(la croce è anche il loro simbolo), fu il trampolino di lancio dell'intera casa discografica, che cominciava finalmente a dimostrare concretamente l'originalità e l'immensa creatività dei suoi artisti. Successivamente la label francese andò via via espandendosi grazie ai successi ottenuti dagli album dei Justice ("Audio,Video,Disco" nel 2011 e l'inedito album dal vivo "A cross the universe" del 2008), Mr.Oizo ("Lambs Anger" del 2008), SebastiAn ("Total" del 2011, album contenente oltre una ventina di brani che spaziano dalla varietà del french touch alla ripetitività incalzante della techno) e Breakbot ("By your side" del 2012). Lo stesso Breakbot è il perfetto emblema dell'evoluzione e del continuo rinnovamento a cui la casa discografica si sottopone; infatti l'artista francese in pochi anni divenne uno dei maggiori esponenti della label grazie al suo stile inconfondibile che concilia la cultura pop dello scorso decennio all'essenziale french touch edbangeriano, il tutto condito da pregevoli vocal che rimandano a brani alternative rock e alternative dance molto simili ai brani di Jamiroquai.
Nel complesso la label ha saputo rinnovarsi dal 2003 fino ad oggi grazie sì ai suoi "pupilli", ma anche grazie a un considerevole pubblico di fans sfegatati e letteralmente "innamorati" dell'etichetta francese.
Quest'anno Busy ha potuto festeggiare il decennario  (il 25 Settembre) organizzando due eventi consecutivi riunendo altri suoi colleghi nella città da cui tutto ciò ebbe inizio: Parigi.
Le due serate si sono svolte nella Red Bull Studios e vi hanno partecipato alcuni tra i maggiori producer francesi tra cui Busy P (immancabile), Boston Bun, Feadz e Laurent Garnier. La seconda serata era inoltre oggetto della Boiler Room(per chi non lo sapesse è un tour di eventi in tutto il mondo a cui partecipano disc jockey dei più svariati generi, il tutto è svolto spesso e volentieri in una stanza con l'ingresso limitato a pochi e fortunati "eletti"). Oltre alle due spettacolari serate vissute a suon di indie dance e indie techno, Busy P ha deciso di cristallizzare questo importante momento della carriera "edbangerana" incidendo un disco che rimarrà nella storia dell'indie dance e della musica elettronica: "Ed Rec. Vol X".

Il disco è stato inciso in onore appunto del decennario e vi hanno partecipato tutti i big della label, nessuno escluso.
Cosa ancora si può dire di un'etichetta simile? Al giorno d'oggi l'EDM (Elettronic Dance Music) è vittima dei mass media ed è in mano alle labels con maggior spessore economico; in tal modo si "tagliano le ali" agli artisti più talentuosi, limitandone la creatività e l'inventiva.
Fortunatamente l'elettronica è molto vasta e oggi giorno esistono ancora labels in grado di andare fuori dagli schemi, di sfoggiare la massima creatività e originalità dell'artista,  richiamando  anche elementi della musica passata coniugandola a nuove possibili frontiere della musica contemporanea; non c'è esempio migliore quale l' Ed Banger Records.

domenica 24 novembre 2013

La Casa Dei 1000 Corpi


Premessa n1: l’idea iniziale era di fare un articolo sul dittico casa dei 1000 corpi/casa del diavolo, se non addirittura una monografia su Rob Zombie, ma come mio esordio mi pareva un po’ troppo pretenzioso, quindi ho deciso di optare per una recensione singola, ripromettendomi però di completare al prima possibile l’analisi dell’opera omnia di questo regista.
Premessa n2: gli spoiler sono inevitabili, oltre che funzionali all’analisi, fatevene una ragione.

Siamo nel 2003. L’ex frontman del peculiare gruppo alternative metal White Zombie, tal Robert Bartleh Cummings, in arte Rob Zombie, esordisce alla regia, sfornando una delle migliori sorprese di inizio millennio e andando a porre il primo tassello di una delle più interessanti carriere registiche di genere degli ultimi 15 anni: si sta parlando de La casa dei 1000 corpi (titolo fortunatamente fedele quanto basta all’originale House of 1000 corpses).
Il progetto nacque come remake del celebre Non aprite quella porta di Tobe Hooper ma, per complicazioni varie, si trasformò in un mezzo tributo al film del ’74 e al cinema horror tanto amato da Zombie, senza scordarsi però di quelle sue aggiunte personali (registiche, estetiche e di scrittura) che andranno a formare il suo marchio nel corso della sua carriera.
Inoltre, fu un percorso di produzione difficile. La universal si tirò indietro all’ultimo per paura dell’imposto divieto ai minori di 17 anni (Zombie girò pure due versioni di ciascuna scena splatter, con e senza sangue), quindi il film, potenzialmente finito nel 2000, dovette aspettare altri 3 anni per essere distribuito.
In compenso, costato 7 milioni, ne incassò 17 solo negli Stati Uniti, spianando la strada al sequel e conseguentemente alla carriera da regista di Rob Zombie.
Passiamo al film in sé.
La trama è quasi uguale a Non aprite quella porta: un gruppo di ragazzi, in vacanza nella desolazione delle periferie del sud degli USA, si imbatte in una famiglia di rednecks psicopatici, i Firefly, fino ad una vera e propria caduta negli inferi. Il tutto condito da una salsa cinefila ricca di citazioni e omaggi (come le trasmissioni horror di mezzanotte, vari riferimenti all’occultista Aleister Crowley disseminati per la pellicola e via discorrendo), come già detto prima, al cinema horror exploitation in toto, a partire dagli interpreti: Sid Haig (Blood Bath e un’infinità di piccole parti, come nel Jackie Brown di Tarantino), Bill Moseley (il celebre fratello dell’originale Leatherface), Karen Black (protagonista della Trilogia del terrore), con Sheri Moon Zombie, moglie del regista, in un convincente debutto cinematografico.
Sono in effetti i personaggi a fare la differenza: uno su tutti il fenomenale Capitano Spaulding (nome preso, come quasi tutti i membri maschili della Famiglia, da personaggi dei fratelli Marx), ma anche i ragazzi appassionati di serial killers in cerca delle peggiori efferatezze degli states (forse una sorta di alter-ego del regista nel suo lato più fanboy?), l’attivista politico anarcoide sopra le righe ma sempre convincente Otis Driftwood, la petulante Baby Firefly, l’eccessivo nonno Hugo, fino al memorabile dottor Satana nel suo laboratorio sottoterra.

La regia alterna riprese più tradizionali, con in particolare un buon uso di camera a mano, crane (da notare la lunga scena dell’esecuzione del poliziotto in ginocchio) e un attento dosaggio di slow-motion, a sperimentazioni noise-psichedeliche, giocando anche con il formato del video, che bene si sposano all’idea di estetica “alla Rob Zombie” già intravista nelle sue produzioni musicali.
Una particolare menzione va al montaggio sonoro e alle musiche, firmate da Zombie: fuori di testa come i personaggi stessi.
E il film è questo, nulla più: è un’abitudine di Zombie (vedi la saga di Halloween) focalizzare al secondo capitolo l’approfondimento di tematiche, nel primo vuole divertire e strizzare l’occhio allo spettatore… e ci riesce benissimo! Veniamo trascinati in questa spirale di follia tout court (follia è tutto, dalle torture, allo spettacolo delirante di nonno Hugo, fino alla malata passione hitcockiana per i delitti da parte delle vittime) e non ne riusciamo più ad uscire. Le risate, a volte più spontanee, a volte nervose, non mancano e l’intrattenimento è assicurato.
Non vi preoccupate, ha i suoi momenti forti che forse non scandalizzeranno gli abitués dello splatter ma che di sicuro non lasceranno a bocca asciutta nessuno. Visione consigliatissima!
Voto: 7 e mezzo