Premessa n1: l’idea iniziale era di fare un articolo sul
dittico casa dei 1000 corpi/casa del
diavolo, se non addirittura una monografia su Rob Zombie, ma come mio
esordio mi pareva un po’ troppo pretenzioso, quindi ho deciso di optare per una
recensione singola, ripromettendomi però di completare al prima possibile
l’analisi dell’opera omnia di questo
regista.
Premessa n2: gli spoiler sono inevitabili, oltre che
funzionali all’analisi, fatevene una ragione.
Siamo nel 2003. L’ex frontman del peculiare gruppo
alternative metal White Zombie, tal
Robert Bartleh Cummings, in arte Rob Zombie, esordisce alla regia, sfornando
una delle migliori sorprese di inizio millennio e andando a porre il primo
tassello di una delle più interessanti carriere registiche di genere degli
ultimi 15 anni: si sta parlando de La
casa dei 1000 corpi (titolo fortunatamente fedele quanto basta
all’originale House of 1000 corpses).
Il progetto nacque come remake del celebre Non aprite quella porta di Tobe Hooper
ma, per complicazioni varie, si trasformò in un mezzo tributo al film del ’74 e
al cinema horror tanto amato da Zombie, senza scordarsi però di quelle sue
aggiunte personali (registiche, estetiche e di scrittura) che andranno a
formare il suo marchio nel corso della sua carriera.
Inoltre, fu un percorso di produzione difficile. La
universal si tirò indietro all’ultimo per paura dell’imposto divieto ai minori
di 17 anni (Zombie girò pure due versioni di ciascuna scena splatter, con e
senza sangue), quindi il film, potenzialmente finito nel 2000, dovette
aspettare altri 3 anni per essere distribuito.
In compenso, costato 7 milioni, ne incassò 17 solo negli
Stati Uniti, spianando la strada al sequel e conseguentemente alla carriera da
regista di Rob Zombie.
Passiamo al film in sé.
La trama è quasi uguale a Non aprite quella porta: un gruppo di ragazzi, in vacanza nella
desolazione delle periferie del sud degli USA, si imbatte in una famiglia di rednecks psicopatici, i Firefly, fino ad
una vera e propria caduta negli inferi. Il tutto condito da una salsa cinefila
ricca di citazioni e omaggi (come le trasmissioni horror di mezzanotte, vari
riferimenti all’occultista Aleister Crowley disseminati per la pellicola e via
discorrendo), come già detto prima, al cinema horror exploitation in toto, a partire dagli interpreti: Sid
Haig (Blood Bath e un’infinità di
piccole parti, come nel Jackie Brown di
Tarantino), Bill Moseley (il celebre fratello dell’originale Leatherface), Karen Black (protagonista
della Trilogia del terrore), con Sheri
Moon Zombie, moglie del regista, in un convincente debutto cinematografico.
Sono in effetti i personaggi a fare la differenza: uno su
tutti il fenomenale Capitano Spaulding (nome preso, come quasi tutti i membri maschili
della Famiglia, da personaggi dei fratelli Marx), ma anche i ragazzi
appassionati di serial killers in cerca delle peggiori efferatezze degli states (forse una sorta di alter-ego del
regista nel suo lato più fanboy?),
l’attivista politico anarcoide sopra le righe ma sempre convincente Otis
Driftwood, la petulante Baby Firefly, l’eccessivo nonno Hugo, fino al
memorabile dottor Satana nel suo laboratorio sottoterra.
La regia alterna riprese più tradizionali, con in
particolare un buon uso di camera a mano, crane (da notare la lunga scena
dell’esecuzione del poliziotto in ginocchio) e un attento dosaggio di
slow-motion, a sperimentazioni noise-psichedeliche,
giocando anche con il formato del video, che bene si sposano all’idea di
estetica “alla Rob Zombie” già intravista nelle sue produzioni musicali.
Una particolare menzione va al montaggio sonoro e alle
musiche, firmate da Zombie: fuori di testa come i personaggi stessi.
E il film è questo, nulla più: è un’abitudine di Zombie
(vedi la saga di Halloween)
focalizzare al secondo capitolo l’approfondimento di tematiche, nel primo vuole
divertire e strizzare l’occhio allo spettatore… e ci riesce benissimo! Veniamo
trascinati in questa spirale di follia tout
court (follia è tutto, dalle torture, allo spettacolo delirante di nonno
Hugo, fino alla malata passione hitcockiana
per i delitti da parte delle vittime) e non ne riusciamo più ad uscire. Le
risate, a volte più spontanee, a volte nervose, non mancano e l’intrattenimento
è assicurato.
Non vi preoccupate, ha i suoi momenti forti che forse non scandalizzeranno
gli abitués dello splatter ma che di
sicuro non lasceranno a bocca asciutta nessuno. Visione consigliatissima!
Voto: 7 e mezzo
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