A me il crossover piace. Parlando, per prima
cosa, da batterista, il mio gusto estetico, senza gli apporti di gruppi quali Rage
Against The Machine e Red Hot Chili Peppers (fino a Californication, poi è tutta un’altra cosa) ma anche da
collaborazioni celebri come Aerosmith-Run Dmc oppure Anthrax-Public Enemy, sarebbe
privato di una componente molto importante, ma anche uscendo dalla semplice
commistione di rap con rock/metal, tutto il miscuglio di due generi musicali solitamente
mi piace. Per questo l’incontro tra due giganti del proprio genere, i
santissimi Beatles da una parte e Jay-z dall’altra, in particolare il White Album dei primi unito al Black Album del secondo, non poteva
lasciarmi indifferente. Lo avrei schifato oppure elevato ai massimi livelli?
I re del pop
anni ‘60 (quello buono) e uno dei massimi signori della east coast insieme? Ebbene sì.
Pare
difficile da credere ma i due universi si equilibrano perfettamente: le basi
dei Fab Four, opportunamente mixate e
ritmate, accompagnano l’incedere aggressivo del rapper di Brooklyn in perfetta
armonia, senza mai avere un momento calante, ma anzi nella continua sensazione
di stare sentendo qualcosa di familiare e allo stesso tempo completamente
nuovo. Splendido.
Tutto questo
lavoro di mescolanza tra generi, una postproduzione incredibile, nonché
l’intuizione geniale che ne sta alla base, appartengono a Danger Mouse, nome
d’arte di Brian Joseph Burton, giovane produttore di artisti del calibro di
Beck, Gorillaz, The Black Keys, U2, Norah Jones, nonchè membro fondatore dei celebri Gnarls Barkley, con collaborazioni personali di artisti quali Jack White, leader degli Shite Stripes, o David Lynch, poliedrico artista a tutto tondo (e quindi con una visione
tutt’altro che bidimensionale della musica, non c’è dubbio).
Da sinistra: David Lynch, Danger Mouse e Mark Linkous, leader degli Sparklehorse. |
Il dubbio potrà sorgere a chi, come me, il rap non lo mastica, oppure a chi, al
contrario, di pop rock d’annata non se ne intende, ma non preoccupatevi, ascoltate
e basta: per quanto il White Album lo
sapessi quasi a memoria, di Jay-z ed in particolare del Black Album non conoscevo quasi nulla (avevo già sentito solo 99 Problems), l’impatto di questo album
è stato poderoso, provare per credere.
Alcuni
esempi? Uno su tutti, il clavicembalo barocco che apre Change Clothes, perfetto, ma anche la ricchezza che trae 99 Problems dalla base di Helter Skelter, elevandola ad un altro
livello, oppure la fantastica voce e il pianoforte di George Harrison in While My Guitar Gently Weeps a
supportare What More Can I Say, con
un attacco di Jay-z talmente perfetto che sembra essere questa la versione
giusta della canzone, e pure l’abilità con cui è stata trasfigurata Happiness Is A Warm Gun in coppia con Moment Of Clarity, donando a
quest’ultima un pathos che prima non
c’era.
Ecco,
proprio di pathos si parla. Infatti,
il difetto che chi non mastica il rap come me lamenta a questo genere è la
monotonia: per quanto una base campionata sia ben costruita, essa resta
comunque una “risorsa” secondaria al servizio della fruibilità ritmica e della
voce, che ne fa da padrone. Ma, se aggiungiamo pure che un rap in lingua
inglese non è, per usare un eufemismo, di immediata comprensione, al povero
ascoltatore italiano (ma pure anglofono, visto il pesante slang da Brooklyn)
resta ben poco di cui fruire.
Come risolvere questa situazione? Aggiungendoci personalità, pathos (appunto), sentimento, in una parola, melodia. E qui entrano in gioco George, Paul, Ringo e John. Il gioco è fatto. Per fortuna che qualcuno se n’è accorto e che quel qualcuno sappia quello che fa.
Unico nel
suo genere, da non perdere.Come risolvere questa situazione? Aggiungendoci personalità, pathos (appunto), sentimento, in una parola, melodia. E qui entrano in gioco George, Paul, Ringo e John. Il gioco è fatto. Per fortuna che qualcuno se n’è accorto e che quel qualcuno sappia quello che fa.
Voto: 8
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