domenica 23 novembre 2014

Sonic Highways

Copertina magnifica, tra l'altro.
I Foo Fighters sono una garanzia: ormai da tempo sono gli unici a fare un classic (hard) rock che coinvolga senza essere dei rottami redivivi dagli anni 60-70. La band di Grohl e compagni ha infatti maturato uno stile evolutosi dalle sonorità post grunge dei primi dischi di metà anni novanta, più che altro il progetto solista del cantante e chitarrista, a un concetto di rock più a 360 gradi, specialmente negli ultimi due album, Echoes, patience, silence and grace e Wasting Light, alternando ritmi più pestati a tracce più melodiche e creando album raramente non godibili (ehm, saltiamo One by one, và), agili all’ascolto come pochi.
Sonic Highways resta nell’onda, forse con un po’ meno verve dei due precedenti, per me più completi, ma ci guadagna con il background artistico: 8 tracce registrate in 8 studi di 8 città americane diverse, tutte centri nevralgici della musica made in USA, con il supporto di “eroi” locali (tipo i Bad Brains a Washington, Rick Nielsen e Steve Albini a Chicago, cose da nulla). Mica pizza e fichi. Ma ci fanno pure una serie HBO? L’acquolina è assicurata.


Una cosa: se Zac Brown è alla chitarra, non aspettatevi una canzone country. Il tributo di Grohl e soci è più spirituale che altro, le sonorità delle città si intravedono, ma il tutto è un disco Foo fino al midollo, compatto come hanno imparato ad abituarci negli ultimi anni. Le aspettative erano un po’ più alte, si sperava in un disco che cambiasse le regole della produzione rock "mainstream", ma prendetela così: le influenze da Albini si sono sempre sentite, questo è solo un modo per “ufficializzare” il loro amore per la musica americana in toto. Se non vi va bene questa spiegazione o trovate che sia un punto debole troppo grave , cambiate strada. Io sono rimasto e quello che ho ascoltato mi è piaciuto, dalle variazioni di tempo di Something from nothing al ritornello a tormentone-pop di I am a river, me la sono goduta fino alla fine. Sono piacevoli, rassicuranti, come rivedere dei vecchi amici dopo un po’ di tempo, con i loro vecchi difetti ma con tutto l’affetto nei loro confronti. E poi, un po’ di sana sospensione d’incredulità, che diamine! Se volete sentire la canzone country, ci troverete qualcosa di country, non vi preoccupate.
Questo disco conferma i Foos, oltre che dei geni del marketing, visto il rilascio di quattro singoli come un countdown fino all’uscita del disco, anche dei solidi produttori di quello che vogliono fare: semplice rock’n’roll da stadio, da gustarsi dal vivo (guardate il live da David Letterman e provate a contenere l’erezione): vi viene in mente qualcuno che abbia ricevuto quell’eredità, con veri e propri “passaggi di testimone” in concerto (vedi Led Zeppelin, Queen e chi più ne ha più ne metta), almeno la metà di loro? Cosa? I kings of leon? Ma vaffanculo! Cosa? No, no, gli U2 sono morti, e l’ultimo chiodo della bara si chiama Songs of innocence (che, citando il batterista dei sopracitati Foo Fighters Taylor Hawkins, “sounds like a fart”).
Americani fino al midollo, senza troppi fronzoli o velleità. Puro divertimento, enjoying music. Che nella vita non fa male, lasciare stare un po’ le pippe da snob musicali.
Scrivo questa recensione a caldissimo, il giorno che è uscito (poi chissà quando la caricherò), già al quarto ascolto di fila (cosa più unica che rara), perché sono preso da uno dei lavori minori di una band, come già detto, non tra le più ricercate o avanguardistiche, ma tanto mi basta: quello che lo fanno, lo fanno bene.
Ma, detto ciò, devo piantarla co’ sti finali paraculi.
Voto: 7 +.

lunedì 10 novembre 2014

The Blues Brothers



Quale miglior modo di - speriamo- ripartire a scrivere (il disco dei King Crimson era in cantiere già da mo’) che parlando del film che ho più amato in tutta la mia vita? Premettendo che adoro le premesse, premetto dicendo che questa recensione avrà poco di oggettivo: io con Jake e Elwood ci sono cresciuto, consumando la videocassetta prima e il dvd poi.
È dai primi anni di elementari, ma forse anche dalla scuola materna, che guardo e riguardo questo film una, due, tre volte l’anno, trovandoci volta per volta una nuova chiave di lettura, una nuova battuta (“conoscete minnie l’impicciona?” “no, io conoscevo una minnie la battona”, ecco, mio padre ha scoperto questa frase solo la settimana scorsa), una nuova scena cult.
Questa pellicola, seconda collaborazione tra John Landis (Animal House i “futuri” Una poltrona per due e Un lupo mannaro americano a Londra) e il feticcio, prematuramente scomparso, John Belushi e prima tra il regista e Dan Aykroyd (alla sceneggiatura e come protagonista), nasce da una coppia di personaggi inventati da Belushi e Aykroyd nei loro primi anni al Saturday Night Live che, mischiando la loro passione per la musica black a tutto tondo e il loro humour a metà tra la slapstick più pura (e anche più bassa), come si nota dalle loro performance, e la satira politica più tagliente, acquisirono negli anni una potenza e una personalità tale da portare Landis, anch’egli grande amante di blues ed affini, a produrre un lungometraggio su di loro.
Parte così l’epopea dei due fratelli Blues alla ricerca della “vecchia band”, in bilico tra la commedia nera, il musical (che musical non è) e il road movie con elementi da caper movie (la band è anche una banda) in un calderone postmoderno in cui si alternano i camei dei più grandi artisti r’n’b, blues, funky, soul, in meravigliose ironizzazioni di sé (Aretha Franklyn in una tavola calda, John Lee Hooker che suona per strada, con il re James Brown, unico “graziato” da questa demitizzazione in una inedita carica ecclesiastica), e citazioni stravolte e decontestualizzate al cinema di genere più classico (la “Pinguina” si muove su di un carrello, in evidente riferimento alla messa in scena dei mostri da parte di Mario Bava, grande maestro dell’orrore nostrano, adorato da Landis), fino a momenti di trama che parodizzano e, come già detto, stravolgono ciò che dal blockbuster ci si aspettava e ci si aspetta tuttora: dal momento di respiro più epico (l’enorme e inutile mobilitazione di polizia e esercito partito solo dall’eccesso di velocità) a quello più romantico (Jake si toglie gli occhiali, bacia l’amata in caschè, per poi lasciarla cadere a terra e proseguire, in un perfetto anticlimax), tutto dell’ American Way Of Life viene smontato e deriso da uno dei registi più sovversivi e anarchici che ci siano. Come si fa a non amarlo?
Entrateci, scopritelo, consumatelo come lo ho consumato io da quando avevo 4-5 anni, non sarà di sicuro una parolaccia in più, ma certamente lo spirito critico verso una società ingabbiante (il riscatto sociale e la redenzione tramite la musica, la ribellione al concetto di “musicista prostituito”, uno su tutti Murph “non strappatevi i capelli” e i Magic Tones), a pesare sul futuro di chi lo guarderà.
Ma anche solo per le canzoni, fateci un pensiero.

Voto: 10.

sabato 25 ottobre 2014

Discipline

La fine degli anni ’70 e, conseguentemente, i primi anni ’80 furono terreno fertile per la nascita del genere New Wave, forse la corrente (non essendo un vero e proprio genere ben definito) di più ampio respiro nella storia della musica rock: da elementi post-punk, a ritmiche funky, da sperimentazioni elettroniche a sonorità tribali di stampo africano, la New Wave spaziava come mai prima d’ora, coinvolgendo artisti di estetiche completamente diverse (The Police e Devo, ad esempio, hanno ben poco di simile) e unendoli con un fil rouge che non si nota al primo ascolto, ma che emerge pian piano che ci si immerge. In un’enorme varietà di nuovi arrivi di quegli anni, anche giganti quali i King Crimson di Robert Fripp, tra le massime espressioni del prog rock di fine anni ’60, approdarono a queste sonorità, producendo uno dei più bei dischi della band stessa, nonché (e qui mi concedo una licenza) uno dei migliori di tutti gli anni ’80: Discipline, datato 1981.
La formazione, innanzitutto, vide arrivare alla chitarra e voce l’eclettico Adrian Belew, turnista dal ’77 al ’78 per Frank Zappa e dal suono veramente peculiare, al basso l’esperto Tony Levin (esecutore di eccellenze quali Peter Gabriel, il già citato Zappa e Lou Reed) che, unito al già straordinario Bill Bruford, geniale pioniere della sperimentazione percussionistica tout court nonchè ex-Yes, e al padrone di casa Fripp, formano forse la più grande formazione dei King Crimson dai tempi di In The Court Of The Crimson King e In The Wake Of Poseidon. Ci si aspettava un capolavoro, quantomeno un bel disco. Mai, nella storia del gruppo londinese, i fan furono tanto delusi e mai, a mio avviso, tanto si sbagliarono.
Freschi della collaborazione data l’anno prima al capolavoro dei Talking Heads, Remain In Light, Fripp e Belew (autore di tutti i pezzi, in collaborazione col gruppo) svilupparono un suono allora nuovo per la band. Le canzoni si fecero più agili, più martellanti, più tribali, più New Wave, appunto, senza però scordare gli splendidi arrangiamenti e le atmosfere che li avevano resi grandi, magari in modo più pulito, meno orchestrale, ma non meno incisivo, in sette tracce una migliore dell’altra, più una bonus track per i più appassionati (CONSIGLIO: ascoltate in pari alla lettura le canzoni): la chitarra di Elephant talk rompe il silenzio con un sound di rottura per Fripp e compagni, scimmiottando il verso dell’elefante mentre un ritmo tribaleggiante trascina la voce di Belew in una sorta di filastrocca in ordine alfabetico, coronato da un meraviglioso assolo rumoristico; Frame by frame è uno dei pezzi più ipnotici mai sentiti, come un gorgo, intrappola, tra perfette alchimie strumentali e cambi di tempo onirici su cui la voce di Belew e le percussioni forsennate di Bruford la fanno da padrone, provare per credere; con Matte kudasai, il suond frenetico si ferma, ma con una classe e un’armonia che pare di aver sentito una sola traccia finora, ed ora si è al crepuscolo di questa prima parte… e che creepuscolo; il risveglio (nonché chiusa del lato A) con Indiscipline è caotico, ma ordinato (ed ancora mi chiedo come facciano a stare a tempo così perfettamente, mostruosi), e quell’”I repeat myself when under stress” riassume tutto… “I wish you where here to see it!”; Thela hun ginjeet segue a nastro il rituale tribale inscenato dal Re Scarlatto, eppure così occidentale nelle sue schitarrate ritmiche e nei suoi parlati nel mezzo della fase stumentale, eppure così lontano dai nostri gusti, dal rock a cui eravamo abituati (Talking Heads vi dice qualcosa ora?), eppure…; chiamare The sheltering sky “anello debole” del disco è un’ esagerazione, diciamo piuttosto che la sonorità si spinge più ad oriente, tornando allo stesso tempo ai tempi lunghi del prog più classico, in una strumentale di tutto rispetto… magari ad alcuni nostalgici può anche piacere di più; Discipline chiude questo gioello ricordandoci e rielaborando (in modo più o meno esplicito) ciò che abbiamo appena sentito, in una sorta di leit motif con tanto di botti finali. Serve dire altro?
Eh, magari sì, direte voi: “Una lista delle canzoni? Solo? Non basta la solita wikipedia?”. Il disco è tutto qua, poche dietrologie, non c’è una trama coinvolgente e introspettiva à la The Wall a fare da spina dorsale, non ha avuto una realizzazione che sprofonda nella leggenda come il Sergent Pepper’s, ma compete con i giganti già citati per le sue canzoni. Punto di arrivo/svolta/caduta/rinascita dei King Crimson che sia, è da ascoltare. Fatelo, qui si gioca in serie A.

Voto: 9

giovedì 13 febbraio 2014

Li Na si racconta: "Il tennis è solo un gioco"

A quasi 32 anni Li Na conquista il suo secondo Grande Slam e non sembra intenzionata a fermarsi. Questa settimana raggiungerà la seconda posizione in classifica scavalcando Victoria Azarenka: impossibile non pensare che sarà una delle protagoniste di questa stagione.

Ce ne ha parlato Chris Evert, ex numero 1 del mondo e vincitore di 18 grandi slam, che ha la vorato come commentatore agli Austrlian Open per ESPN:

Quanto è importante Li Na per il tennis ?
Mi piace quando commento le sue partite, perché posso passare un'ora raccontando la sua storia, della Cina, dei suoi tatuaggi, della sua educazione. La cosa veramente interessante che ho letto sul suo passato è il pessimo rapporto che aveva col suo allenatore in Cina. Non ha mai ricevuto un complimento. Su questo Carlos Rodriguez ha dovuto lavorare molto, in realtà, facendola arrivare ad avere più fiducia e consapevolezza nel suo gioco. Ma la sua storia è davvero ammirevole, non so quante persone potrebbero resistere ad un governo comunista, è sicuramente un esempio unico per il tennis.
Il suo allenatore, Carlos Rodriguez ha fatto un ottimo lavoro, non ti sembra?
Sì, qui (indicando la testa). Ricordate, allenava Justine Henin, e penso che fosse altrettanto difficile. Lui potrebbe diventare uno psicologo senza nemmeno dover  studiare.
La Li Na di oggi è la migliore di sempre?
Sì. Si vede che ha lavorato molto per sistemare i punti deboli, in particolare il servizio. Alla battuta si nota che sta lanciando la palla più alta e utilizza di più le gambe. Penso che il suo servizio e venire a rete siano le due cose su cui ha lavorato di più. E 'fantastico, over 30 e sta ancora lavorando per migliorare il suo gioco, penso che sia molto stimolante.

Molto più cauta si dimostra invece la stessa Li Na che afferma: "Io non credo che questo sia il momento migliore della mia carriera. L'anno è solo all'inizio, ci sono ancora dieci mesi alla fine della stagione”. Ma non può nascondere l’ottimismo: “il futuro può essere migliore, sono fiduciosa di poter ancora fare bene, quindi voglio dimostrare quello che so fare”
Alla base di questo ottimismo c’è una maturazione che la cinese ha percepito dopo la vittoria di Melbourne, provando sensazioni e stimoli molto diversi da quelle del suo primo successo Slam tre anni fa: “E' molto, molto diverso", ha detto. "mi sento meglio rispetto la mia prima grande vittoria a Parigi. Dopo Melbourne non mi sono sentita eccitata, come la prima volta. Sono molto più consapevole di ciò che è successo e mi sento più rilassata."

Insomma Li Na non crede che aver superato i 30 anni possa essere uno svantaggio, anzi: "Quando si raggiungono i 30 le persone dicono che sei vecchio. Io invece sono davvero felice perché ora sono in buona salute e mi sento più forte di prima”.
"L'età non significa nulla. E 'una questione di come la gestisci. Con l'età si ottiene molta più esperienza che può fare la differenza”
"Mi prendo cura di me stessa, come potete vedere non ho mai avuto lesioni! Tranne quando sono caduta, altrimenti non ho mai avuto un infortunio”.
"Ho imparato come fare le cose per evitare infortuni. Ho imparato molte cose, per esempio che cosa devo mangiare e cosa non posso mangiare. Io non voglio perdere energia. Ad esempio mi piace il cibo piccante, ma durante un torneo non lo mangio perché non è sempre un bene per lo stomaco. Non mi piace molto la pasta, ma la mangio spesso perché dà più energia."

Questa settimana la cinese sarà impegnata nel torneo di Doha ed è un torneo che alla Li Na piace particolarmente ma che presenta un tabellone ostico: "Posso sentire la pressione, ma devo trovare un modo per calmarmi" ha detto.

"Anche solo venendo qui mi ripetevo non pensarci troppo. Il tennis è solo un gioco, quindi non mettere troppa pressione su di te."

lunedì 27 gennaio 2014

AUSTRALIAN OPEN 2014: LE PAGELLE

C’è aria di novità nel circuito ATP, con uno Stanislas Wawrinka che sale terzo in classifica vincendo il suo primo slam in finale contro Rafael Nadal. Che sia la conclusione del dominio dei big four? Staremo a vedere, intanto andiamo ad analizzare i protagonisti del primo slam dell’anno:

Berdich 7: inizio di stagione positivo per Thomas Berdich che non centrava una semifinale slam da Wimbledon 2010. Eppure rimane un po’ di rammarico, perché, dopo aver battuto il numero 3 del mondo David Ferrer  in quattro set, la finale slam sembrava a portata di mano vista l’imprevista semi contro Wawrinka. Il ceco è però sembrato appagato dagli ultimi risultati lasciando che sia lo svizzero a giocarsi il tutto per tutto in finale. Capiteranno altre occasioni cosi ghiotte??  Sazio

Del Potro 3: difficile pensare che sarebbe potuta andare peggio dell’anno scorso quando si era fermato al terzo turno, eppure la torre di Tandil c’è riuscita, fermandosi al secondo turno contro un Bautista Agut come non si era mai visto. I meriti dello spagnolo sono evidenti, ma per un giocatore come Del Potro, considerato tra i favoriti del torneo, ci si aspettava molto di più. Un buon risultato in Australia l’avrebbe portato  alla terza posizione in classifica e invece si rinnova il pessimo rapporto col primo slam della stagione. Ma dopotutto non è importante come inizi la stagione, ma come la finisci… Diesel  

Djockovich 5: con 25 vittorie consecutive deteneva le chiavi di Melbourne park da ormai tre anni e non sembrava proprio questo l’anno giusto per renderle viste le prestazione di fine 2013. Invece il serbo si è dovuto arrendere dopo una battaglia di cinque set contro Stanislas Wawrinka. Rimangono emblematici gli ultimi due punti a rete, incredibilmente sbagliati da Nole, e con i quali regala la vittoria allo svizzero. L’ impressione è che questo slam non lo volesse vincere… Abdicante    

Federer 7,5: sarà la racchetta nuova, sarà la collaborazione con Stefan Edberg, sta di fatto che un Roger Federer così non si vedeva da tempo. Solido, costante e soprattutto con una preparazione atletica che la stagione scorsa è completamente mancata. Sempre superiore agli avversari, in grado di amministrare la partita (perde il primo set del torneo contro Murray ai quarti). Il sogno si infrange in semifinale contro il toro spagnolo che tanto l’ha fatto penare negli ultimi dieci anni: dopo un primo set lottato Federer molla soprattutto a livello mentale lasciando che Nadal si aggiudichi il match in tre set. Col majorchino di fronte Federer è un altro giocatore, fa errori che con qualsiasi altro giocatore non farebbe come se riaffiorassero i fantasmi dei match passati. Traumatizzato

Murray 6,5: prestazione più che sufficiente per il talento britannico ma il voto tiene in considerazione l’infortunio da cui si è appena ripreso. Dopo quattro mesi di stop Murray è tornato in campo determinato e senza voglia di strafare. Il quarto di finale contro Federer ha però dimostrato che il suo gioco presenta ancora diverse carenze, soprattutto fatica a mettere pressione all’avversario e tenere ritmi elevati per l’intero match. Dopo i due slam vinti sappiamo che può fare molto di più, dipende solo da quanto ci metterà a tornare a quei livelli…   In rodaggio

Nadal 8: sin dai primi turni si era visto come non fosse il suo torneo. Vince sì, ma non domina come ci ha abituati, anzi perde anche qualche set qua e là. A lui il merito di arrivare alla finale pur non giocando al meglio. Nell’ultimo atto del torneo ha però due avversari: un Wawrinka a dir poco esaltato ed una schiena malconcia.  Questa volta lottare fino all’ultimo non è bastato… Umano

Wawrinka 10: cos’altro gli si può chiedere? Wawrinka è il primo vincitore di Slam da Bruguera a parigi '93 a battere le prime due teste di serie e il primo in assoluto a battere Djokovic e Nadal in uno Slam. Ai quarti contro il serbo dà vita al sequel della battaglia dell’anno scorso, solo che stavolta è lui a spuntarla al quinto. In finale contro Nadal è aiutato dai dolori alla schiena del majorchino ma ciò non sminuisce l’impresa di cui è artefice.  Durante tutto il torneo ha dimostrato una solidità eccezionale: costante al servizio, sempre in pressione sia di dritto che di rovescio e determinato durante i punti salienti. Ora è inevitabile chiedersi se sarà il trampolino di lancio per la sua carriera o soltanto una breve parentesi, ma intanto congratulazioni Stan!  Iron-Stan




martedì 21 gennaio 2014

I migliori film del 2013 (secondo me)

I 15 migliori film visti da me in quest’anno (quello che ho visto ho visto, peccato per alcuni grandi assenti). Chiaramente si contano film usciti quest’anno, alle volte la distribuzione italiana fa brutti scherzi.

15. La Casa (Fede Alvarez)
Remake dignitoso, che però perde il fascino dell’opera prima in cambio di continue strizzate d’occhio agli spettatori più rodati. Ciò nonostante, godibile anche come opera a sé stante.
14. Machete Kills (Robert Rodriguez)
B-movie all’insegna di trash e citazionismo, una goduria. Peccato che il confronto con il primo capitolo, nonostante il cambio di cast, soffra del teorema della “zuppa riscaldata”. Per gli appassionati.
13. Killer In Viaggio (Ben Wheatley)
Commedia nera molto british dai tratti a dir poco inquietanti. Il genio del male Wheatley inizia a farsi sentire pure in Italia, bene. Merita da vedere solo per le performances dei protagonisti. Brillante e crudele.
12. Flight (Robert Zemeckis)
Pagare per i nostri errori è un destino a cui dobbiamo andare incontro, così ci dice Zemeckis, ma senza eccessiva retorica e con un Denzel Washington in grande forma. Convincente il ritorno del regista ai film “in carne e ossa”, bene così.
11. Il Lato Positivo (David O. Russell)
O. Russell è nel suo periodo buono e questo film ne è la conferma: storia borderline, cast azzeccatissimo (chi pensava che Bradley Cooper sapesse recitare?) e regia perfetta per una commedia anomala che è piaciuta veramente a tutti, in senso buono.
10. Facciamola Finita (Seth Rogen, Evan Goldberg)
Quest’anno le commedie fantastiche vanno fortissime. L’opera prima di Seth Rogen alla regia (che se la cava mica male) è una dissacrante apocalisse a Hollywood, complice il gruppo di attori protagonisti, amici fedelissimi di Rogen, pronti a distruggere le proprie immagini di star (Michael Cera in primis). Vedere per credere.
9. Django Unchained (Quentin Tarantino)
C’è da dire che mi piange il cuore mettere Tarantino così indietro… e non per colpa sua, ma per merito di chi gli sta sopra in classifica. Comunque, qualsiasi cosa lui tocchi diventa oro e questo film non sfugge a questa logica, peccato per qualche sbavatura evitabile (ed evito di chiamarlo un “Tarantino minore”, suona male).
8. La Grande Bellezza (Paolo Sorrentino)
Altro favorito di quest’anno, altro gigante indietro nella classifica, ancora un po’ per merito altrui, un po’ per colpa sua. Fare un film sul nulla… Sorrentino c’è riuscito bene, peccato che il finale un po’ tirato, la lunghezza eccessiva e un forse eccessivo uso di aforismi e retorica varia appesantiscono questo film oltre la sopportazione di molti. Ciò non toglie che sia una bomba, non lo negate. Il problema è che è un film che fa dire: “molto bello, ma non lo rivedrei proprio seduta stante”. O meglio, così mi sono sentito io.
7. Pacific Rim (Guillermo Del Toro)
Ci sono pochi film che riescono a farmi tornare bambino, ma mai nessuno di questi era stato visto da me in tempi recenti, tutti tranne uno. Pacific Rim è l’Intrattenimento, forse un po’ nostalgico e per questo con tutti i difetti tipici del genere, oltre a una marea di strizzate d’occhio, ma attraente proprio per questo: Del Toro annichilisce Transformers (il paragone è quasi d’obbligo) e compagnia varia al loro stesso gioco. D’altronde, nessuno mi aveva fatto entrare così facilmente dentro un mondo così sopra le righe senza che io ne prendessi le distanze. Tanto di cappello.
6. La Fine Del Mondo (Edgar Wright)
Perché i distributori italiani lo abbiano snobbato, questo resta un mistero: fantascienza e comicità (oltre a una massiccia dose di satira sociale, che della commedia dovrebbe, e dico dovrebbe, essere un elemento fondamentale) fuse come raramente si vede, e Wright fa centro ancora. La Trilogia del Cornetto è completa e già mi manca, speriamo che dopo il “temuto” Ant-Man, il regista britannico torni alle opere dissacranti che, scusate il gioco di parole, lo hanno consacrato.
5. Le Streghe Di Salem (Rob Zombie)
Zombie studia e si vede: questo film risente di influenze polanskiane e kubrickiane, non c’è il minimo dubbio, ma sviluppa un gusto estetico, un marciume (non solo di superficie), in senso buono, che è puro marchio Zombie, un regista la cui visione si fa più intrigante e più complessa film dopo film. Questa volta si dà alla metafisica, alla religione e ne stravolge i concetti base, pur giocando con gli stilemi del genere della possessione demoniaca. Pazzesco.
4. Blue Jasmine (Woody Allen)
Allen è ancora vivo e si vede. Apprezzato colpo di reni per il quasi ottantenne più famoso di Manhattan che cambia, oltre che città (San Francisco), anche atteggiamento verso quella borghesia radical-chic (con pure una spruzzata bohemien) con cui si era adagiato (o è solo una mia impressione) in film recenti quali Vicky Christina Barcelona e Midnight In Paris: la critica colpisce tutti, abbienti e poveretti, upper class e working class, sezionando con una crudeltà divertita le nostre contraddizioni.
3. Stoker (Park Chan-Wook)
L’esordio occidentale di Park Chan-Wook non poteva essere migliore: cast azzeccatissimo, trama e sceneggiatura perfette e atmosfera impeccabile ne fanno un titolo imperdibile. Una prova: nella prima mezz’ora non succede quasi niente, ma non si riesce a staccare gli occhi dallo schermo, in un crescendo di tensione di cui si intuisce solo alla lontana la causa. Come? Andateglielo a chiedere, se lo avessi capito non ne sarei rimasto così affascinante. Raramente un film così ipnotico.
2. Venere In Pelliccia (Roman Polanski)
Questa pare la seconda giovinezza di Roman Polanski: non sbaglia un film. Anche Venere In Pelliccia non fa eccezione, portando avanti un discorso autoriale tutt’altro che semplice che, volendolo cercare, sta andando avanti dagli anni ’60. Il gioco delle parti, il dualismo dei caratteri, la passività contrapposta all’attività, la realtà che non è vera realtà… serve altro? Geniale, trascinante e conturbante sotto ogni punto di vista, emoziona e fa riflettere, niente di meglio (o quasi, visto che l’oro è di un altro titolo).
1. Solo Dio Perdona (Nicholas Winding Refn)
Capolavoro. Capolavoro. Ogni cosa mozza il fiato in questo film. Forse non ci arriverete alla prima visione, allora guardatelo una seconda volta e una terza e via così. Complesso in questo caso è sinonimo di imperdibile. Guardatelo, se amate il cinema, ma anche se tra voi c’è solo una semplice amicizia.

I migliori dischi del 2013 (secondo me)

I migliori 11 dischi (ascoltati da me) dell’anno 2013. Sì, 11, perché 10 è troppo mainstream.

11. Franz Ferdinand – Right Thougts, Right Words, Right Action
I Franz Ferdinand ritornano al sound dei primi due album, lontani dalle sonorità dub di Tonight, con un album non spumeggiante, ma sempre dignitoso.
10. Elio E Le Storie Tese – L’Album Biango
Album sottotono per gli elii, che però, merito in particolare dei singoli La canzone mononota e Complesso del primo maggio, si fanno ancora ascoltare con piacere. Peccato.
9. Daft Punk – Random Access Memory
Alcuni lo avrebbero messo più in alto, ma questo cambio dello stile, verso un dance anni ’70 dal sapore retrò, non mi ha fatto urlare al capolavoro. Mossa azzardata, in parte riuscita, in parte no.
8. Ministri – Per Un Passato Migliore
Non male il nuovo lavoro della band milanese: testi a mio avviso migliorati e arrangiamenti piacevoli. Purtroppo l’album cala verso la fine, magari tagliando qualche canzone…
7. Depeche Mode – Delta Machine
Nella mia ignoranza verso la discografia di Dave Gahan e compagni, posso dire che questo album scorre che è una meraviglia, non sembrando stanco come i loro lavori di inizio anni duemila. Ok, toccherà farcisi una cultura.
6. Nick Cave & The Bad Seeds – Push The Sky Away
Sobrietà. Questa è la parola d’ordine dell’ultimo lavoro di Cave e soci: canzoni composte, eleganti e come sempre arrangiate alla perfezione. Ho sentito però una certa mancanza di quel post punk che mi ha fatto innamorare del cantautore. Manca poco, da ascoltare comunque: così si scrivono le canzoni.
5. The Bloody Beetroots – HIDE
Ok, non ho amato tutte le tracce, ma quelle che mi sono piaciute mi sono piaciute veramente tanto: da Spank a Volevo Un Gatto Nero, passando per il featuring con Paul McCartney, questa è l’EDM fatta bene. Bravo Bob Rifo.
4. Arctic Monkeys – AM
A discapito di una batteria in gran parte appiattita in uno stile più posato, l’album è un’evidente crescita (perlopiù nello stile di chitarra e dei testi, finalmente più maturi e riflessivi) per la band. Continuare così, Turner & co.,magari non scordandosi la sezione ritmica a casa.
3. Arcade Fire – Reflektor
A partire dalla sorprendente title track di apertura, questo doppio lp è un ottimo esempio di come, da un “semplice” indie rock senza pretese, si può raggiungere un suono personale e originale. Bravi Arcade Fire, bravi veramente. Va ascoltato. (consigli: reflektor, joan of arc, here comes the night time, porno).
2. David Bowie – The Next Day
Il giorno dopo il Duca c’è. Con dieci anni di silenzio alle spalle, nessuno si aspettava un ritorno così solido, dai testi sempre graffianti agli arrangiamenti ricchi e mai scontati (sembra urlare agli hipster del nuovo millennio: <l’ho inventata io, la vostra musica!>), il tutto con una copertina che parla quasi più delle canzoni: la celeberrima copertina di Heroes fa da sfondo, ma rimane coperta… quale migliore segno di vita da parte di Bowie di questo? (consigli: the next day, the stars (are out tonight), I’d rather be high, (you will) set the world on fire)
1. Queens Of The Stone Age - … Like Clockwork
Lo dico subito: il miglior lavoro della band finora. Niente da dire: se prima si è parlato di evoluzioni, maturazioni di tematiche e suono, questo ne è l’esempio più emblematico. E non dico altro. (consigli: i sat by the ocean, keep your eyes peeled, my god is the sun, I appear missing, … like clockwork).