domenica 23 novembre 2014

Sonic Highways

Copertina magnifica, tra l'altro.
I Foo Fighters sono una garanzia: ormai da tempo sono gli unici a fare un classic (hard) rock che coinvolga senza essere dei rottami redivivi dagli anni 60-70. La band di Grohl e compagni ha infatti maturato uno stile evolutosi dalle sonorità post grunge dei primi dischi di metà anni novanta, più che altro il progetto solista del cantante e chitarrista, a un concetto di rock più a 360 gradi, specialmente negli ultimi due album, Echoes, patience, silence and grace e Wasting Light, alternando ritmi più pestati a tracce più melodiche e creando album raramente non godibili (ehm, saltiamo One by one, và), agili all’ascolto come pochi.
Sonic Highways resta nell’onda, forse con un po’ meno verve dei due precedenti, per me più completi, ma ci guadagna con il background artistico: 8 tracce registrate in 8 studi di 8 città americane diverse, tutte centri nevralgici della musica made in USA, con il supporto di “eroi” locali (tipo i Bad Brains a Washington, Rick Nielsen e Steve Albini a Chicago, cose da nulla). Mica pizza e fichi. Ma ci fanno pure una serie HBO? L’acquolina è assicurata.


Una cosa: se Zac Brown è alla chitarra, non aspettatevi una canzone country. Il tributo di Grohl e soci è più spirituale che altro, le sonorità delle città si intravedono, ma il tutto è un disco Foo fino al midollo, compatto come hanno imparato ad abituarci negli ultimi anni. Le aspettative erano un po’ più alte, si sperava in un disco che cambiasse le regole della produzione rock "mainstream", ma prendetela così: le influenze da Albini si sono sempre sentite, questo è solo un modo per “ufficializzare” il loro amore per la musica americana in toto. Se non vi va bene questa spiegazione o trovate che sia un punto debole troppo grave , cambiate strada. Io sono rimasto e quello che ho ascoltato mi è piaciuto, dalle variazioni di tempo di Something from nothing al ritornello a tormentone-pop di I am a river, me la sono goduta fino alla fine. Sono piacevoli, rassicuranti, come rivedere dei vecchi amici dopo un po’ di tempo, con i loro vecchi difetti ma con tutto l’affetto nei loro confronti. E poi, un po’ di sana sospensione d’incredulità, che diamine! Se volete sentire la canzone country, ci troverete qualcosa di country, non vi preoccupate.
Questo disco conferma i Foos, oltre che dei geni del marketing, visto il rilascio di quattro singoli come un countdown fino all’uscita del disco, anche dei solidi produttori di quello che vogliono fare: semplice rock’n’roll da stadio, da gustarsi dal vivo (guardate il live da David Letterman e provate a contenere l’erezione): vi viene in mente qualcuno che abbia ricevuto quell’eredità, con veri e propri “passaggi di testimone” in concerto (vedi Led Zeppelin, Queen e chi più ne ha più ne metta), almeno la metà di loro? Cosa? I kings of leon? Ma vaffanculo! Cosa? No, no, gli U2 sono morti, e l’ultimo chiodo della bara si chiama Songs of innocence (che, citando il batterista dei sopracitati Foo Fighters Taylor Hawkins, “sounds like a fart”).
Americani fino al midollo, senza troppi fronzoli o velleità. Puro divertimento, enjoying music. Che nella vita non fa male, lasciare stare un po’ le pippe da snob musicali.
Scrivo questa recensione a caldissimo, il giorno che è uscito (poi chissà quando la caricherò), già al quarto ascolto di fila (cosa più unica che rara), perché sono preso da uno dei lavori minori di una band, come già detto, non tra le più ricercate o avanguardistiche, ma tanto mi basta: quello che lo fanno, lo fanno bene.
Ma, detto ciò, devo piantarla co’ sti finali paraculi.
Voto: 7 +.

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