lunedì 10 novembre 2014

The Blues Brothers



Quale miglior modo di - speriamo- ripartire a scrivere (il disco dei King Crimson era in cantiere già da mo’) che parlando del film che ho più amato in tutta la mia vita? Premettendo che adoro le premesse, premetto dicendo che questa recensione avrà poco di oggettivo: io con Jake e Elwood ci sono cresciuto, consumando la videocassetta prima e il dvd poi.
È dai primi anni di elementari, ma forse anche dalla scuola materna, che guardo e riguardo questo film una, due, tre volte l’anno, trovandoci volta per volta una nuova chiave di lettura, una nuova battuta (“conoscete minnie l’impicciona?” “no, io conoscevo una minnie la battona”, ecco, mio padre ha scoperto questa frase solo la settimana scorsa), una nuova scena cult.
Questa pellicola, seconda collaborazione tra John Landis (Animal House i “futuri” Una poltrona per due e Un lupo mannaro americano a Londra) e il feticcio, prematuramente scomparso, John Belushi e prima tra il regista e Dan Aykroyd (alla sceneggiatura e come protagonista), nasce da una coppia di personaggi inventati da Belushi e Aykroyd nei loro primi anni al Saturday Night Live che, mischiando la loro passione per la musica black a tutto tondo e il loro humour a metà tra la slapstick più pura (e anche più bassa), come si nota dalle loro performance, e la satira politica più tagliente, acquisirono negli anni una potenza e una personalità tale da portare Landis, anch’egli grande amante di blues ed affini, a produrre un lungometraggio su di loro.
Parte così l’epopea dei due fratelli Blues alla ricerca della “vecchia band”, in bilico tra la commedia nera, il musical (che musical non è) e il road movie con elementi da caper movie (la band è anche una banda) in un calderone postmoderno in cui si alternano i camei dei più grandi artisti r’n’b, blues, funky, soul, in meravigliose ironizzazioni di sé (Aretha Franklyn in una tavola calda, John Lee Hooker che suona per strada, con il re James Brown, unico “graziato” da questa demitizzazione in una inedita carica ecclesiastica), e citazioni stravolte e decontestualizzate al cinema di genere più classico (la “Pinguina” si muove su di un carrello, in evidente riferimento alla messa in scena dei mostri da parte di Mario Bava, grande maestro dell’orrore nostrano, adorato da Landis), fino a momenti di trama che parodizzano e, come già detto, stravolgono ciò che dal blockbuster ci si aspettava e ci si aspetta tuttora: dal momento di respiro più epico (l’enorme e inutile mobilitazione di polizia e esercito partito solo dall’eccesso di velocità) a quello più romantico (Jake si toglie gli occhiali, bacia l’amata in caschè, per poi lasciarla cadere a terra e proseguire, in un perfetto anticlimax), tutto dell’ American Way Of Life viene smontato e deriso da uno dei registi più sovversivi e anarchici che ci siano. Come si fa a non amarlo?
Entrateci, scopritelo, consumatelo come lo ho consumato io da quando avevo 4-5 anni, non sarà di sicuro una parolaccia in più, ma certamente lo spirito critico verso una società ingabbiante (il riscatto sociale e la redenzione tramite la musica, la ribellione al concetto di “musicista prostituito”, uno su tutti Murph “non strappatevi i capelli” e i Magic Tones), a pesare sul futuro di chi lo guarderà.
Ma anche solo per le canzoni, fateci un pensiero.

Voto: 10.

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