Quale miglior modo di - speriamo- ripartire a scrivere (il disco
dei King Crimson era in cantiere già da mo’) che parlando del film che ho più
amato in tutta la mia vita? Premettendo che adoro le premesse, premetto dicendo
che questa recensione avrà poco di oggettivo: io con Jake e Elwood ci sono
cresciuto, consumando la videocassetta prima e il dvd poi.
È dai primi anni di elementari, ma forse anche dalla
scuola materna, che guardo e riguardo questo film una, due, tre volte l’anno,
trovandoci volta per volta una nuova chiave di lettura, una nuova battuta
(“conoscete minnie l’impicciona?” “no, io conoscevo una minnie la battona”,
ecco, mio padre ha scoperto questa frase solo la settimana scorsa), una nuova
scena cult.
Questa pellicola, seconda collaborazione tra John
Landis (Animal House i “futuri” Una poltrona per due e Un lupo mannaro americano a Londra) e il
feticcio, prematuramente scomparso, John Belushi e prima tra il regista e Dan
Aykroyd (alla sceneggiatura e come protagonista), nasce da una coppia di
personaggi inventati da Belushi e Aykroyd nei loro primi anni al Saturday Night Live che, mischiando la
loro passione per la musica black a
tutto tondo e il loro humour a metà tra la slapstick
più pura (e anche più bassa), come si nota dalle loro performance, e la satira
politica più tagliente, acquisirono negli anni una potenza e una personalità
tale da portare Landis, anch’egli grande amante di blues ed affini, a produrre
un lungometraggio su di loro.
Parte così l’epopea dei due fratelli Blues alla
ricerca della “vecchia band”, in bilico tra la commedia nera, il musical (che
musical non è) e il road movie con
elementi da caper movie (la band è
anche una banda) in un calderone postmoderno in cui si alternano i camei dei
più grandi artisti r’n’b, blues, funky, soul, in meravigliose ironizzazioni di
sé (Aretha Franklyn in una tavola calda, John Lee Hooker che suona per strada,
con il re James Brown, unico “graziato” da questa demitizzazione in una inedita
carica ecclesiastica), e citazioni stravolte e decontestualizzate al cinema di
genere più classico (la “Pinguina” si muove su di un carrello, in evidente
riferimento alla messa in scena dei mostri da parte di Mario Bava, grande
maestro dell’orrore nostrano, adorato da Landis), fino a momenti di trama che
parodizzano e, come già detto, stravolgono ciò che dal blockbuster ci si aspettava e ci si aspetta tuttora: dal momento di
respiro più epico (l’enorme e inutile mobilitazione di polizia e esercito
partito solo dall’eccesso di velocità) a quello più romantico (Jake si toglie
gli occhiali, bacia l’amata in caschè, per poi lasciarla cadere a terra e
proseguire, in un perfetto anticlimax), tutto dell’ American Way Of Life viene smontato e deriso da uno dei registi più
sovversivi e anarchici che ci siano. Come si fa a non amarlo?
Entrateci, scopritelo, consumatelo come lo ho
consumato io da quando avevo 4-5 anni, non sarà di sicuro una parolaccia in
più, ma certamente lo spirito critico verso una società ingabbiante (il
riscatto sociale e la redenzione tramite la musica, la ribellione al concetto di
“musicista prostituito”, uno su tutti Murph “non strappatevi i capelli” e i
Magic Tones), a pesare sul futuro di chi lo guarderà.
Ma anche solo per le canzoni, fateci un pensiero.
Voto: 10.
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