Copertina magnifica, tra l'altro. |
I Foo Fighters sono una garanzia: ormai da tempo sono gli
unici a fare un classic (hard) rock che coinvolga senza essere dei rottami
redivivi dagli anni 60-70. La band di Grohl e compagni ha infatti maturato uno
stile evolutosi dalle sonorità post grunge dei primi dischi di metà anni
novanta, più che altro il progetto solista del cantante e chitarrista, a un
concetto di rock più a 360 gradi, specialmente negli ultimi due album, Echoes, patience, silence and grace e Wasting Light, alternando ritmi più
pestati a tracce più melodiche e creando album raramente non godibili (ehm,
saltiamo One by one, và), agili all’ascolto
come pochi.
Sonic Highways resta
nell’onda, forse con un po’ meno verve dei due precedenti, per me più completi,
ma ci guadagna con il background
artistico: 8 tracce registrate in 8 studi di 8 città americane diverse, tutte
centri nevralgici della musica made in
USA, con il supporto di “eroi” locali (tipo i Bad Brains a Washington, Rick
Nielsen e Steve Albini a Chicago, cose da nulla). Mica pizza e fichi. Ma ci
fanno pure una serie HBO? L’acquolina è assicurata.
Una cosa: se Zac Brown è alla chitarra, non aspettatevi una
canzone country. Il tributo di Grohl e soci è più spirituale che altro, le
sonorità delle città si intravedono, ma il tutto è un disco Foo fino al
midollo, compatto come hanno imparato ad abituarci negli ultimi anni. Le aspettative erano un po’ più alte,
si sperava in un disco che cambiasse le regole della produzione rock "mainstream", ma prendetela così: le influenze
da Albini si sono sempre sentite, questo è solo un modo per “ufficializzare” il
loro amore per la musica americana in toto. Se non vi va bene questa
spiegazione o trovate che sia un punto debole troppo grave , cambiate strada.
Io sono rimasto e quello che ho ascoltato mi è piaciuto, dalle variazioni di
tempo di Something from nothing al
ritornello a tormentone-pop di I am a
river, me la sono goduta fino alla fine. Sono piacevoli, rassicuranti, come
rivedere dei vecchi amici dopo un po’ di tempo, con i loro vecchi difetti ma
con tutto l’affetto nei loro confronti. E poi, un po’ di sana sospensione
d’incredulità, che diamine! Se volete sentire la canzone country, ci troverete
qualcosa di country, non vi preoccupate.
Questo disco conferma i Foos,
oltre che dei geni del marketing, visto il rilascio di quattro singoli come un
countdown fino all’uscita del disco, anche dei solidi produttori di quello che
vogliono fare: semplice rock’n’roll da
stadio, da gustarsi dal vivo (guardate il live da David Letterman e provate a
contenere l’erezione): vi viene in mente qualcuno che abbia ricevuto
quell’eredità, con veri e propri “passaggi di testimone” in concerto (vedi Led
Zeppelin, Queen e chi più ne ha più ne metta), almeno la metà di loro? Cosa? I
kings of leon? Ma vaffanculo! Cosa? No, no, gli U2 sono morti, e l’ultimo
chiodo della bara si chiama Songs of
innocence (che, citando il batterista dei sopracitati Foo Fighters Taylor Hawkins, “sounds like a fart”).
Americani fino al midollo, senza troppi fronzoli o velleità.
Puro divertimento, enjoying music.
Che nella vita non fa male, lasciare stare un po’ le pippe da snob musicali.
Scrivo questa recensione a caldissimo, il giorno che è
uscito (poi chissà quando la caricherò), già al quarto ascolto di fila (cosa
più unica che rara), perché sono preso da uno dei lavori minori di una band,
come già detto, non tra le più ricercate o avanguardistiche, ma tanto mi basta:
quello che lo fanno, lo fanno bene.
Ma, detto ciò, devo piantarla co’ sti finali paraculi.
Voto: 7 +.