La
fine degli anni ’70 e, conseguentemente, i primi anni ’80 furono terreno
fertile per la nascita del genere New
Wave, forse la corrente (non essendo un vero e proprio genere ben definito)
di più ampio respiro nella storia della musica rock: da elementi post-punk, a ritmiche funky, da sperimentazioni elettroniche a
sonorità tribali di stampo africano, la New
Wave spaziava come mai prima d’ora, coinvolgendo artisti di estetiche
completamente diverse (The Police e Devo, ad esempio, hanno ben poco di simile)
e unendoli con un fil rouge che non
si nota al primo ascolto, ma che emerge pian piano che ci si immerge. In
un’enorme varietà di nuovi arrivi di quegli anni, anche giganti quali i King
Crimson di Robert Fripp, tra le massime espressioni del prog rock di fine anni ’60, approdarono a queste sonorità,
producendo uno dei più bei dischi della band stessa, nonché (e qui mi concedo una
licenza) uno dei migliori di tutti gli anni ’80: Discipline, datato 1981.
La
formazione, innanzitutto, vide arrivare alla chitarra e voce l’eclettico Adrian
Belew, turnista dal ’77 al ’78 per Frank Zappa e dal suono veramente peculiare,
al basso l’esperto Tony Levin (esecutore di eccellenze quali Peter Gabriel, il
già citato Zappa e Lou Reed) che, unito al già straordinario Bill Bruford,
geniale pioniere della sperimentazione percussionistica tout court nonchè ex-Yes,
e al padrone di casa Fripp, formano forse la più grande formazione dei King
Crimson dai tempi di In The Court Of The
Crimson King e In The Wake Of
Poseidon. Ci si aspettava un capolavoro, quantomeno un bel disco. Mai,
nella storia del gruppo londinese, i fan furono tanto delusi e mai, a mio
avviso, tanto si sbagliarono.
Freschi
della collaborazione data l’anno prima al capolavoro dei Talking Heads, Remain In Light, Fripp e Belew (autore
di tutti i pezzi, in collaborazione col gruppo) svilupparono un suono allora
nuovo per la band. Le canzoni si fecero più agili, più martellanti, più
tribali, più New Wave, appunto, senza
però scordare gli splendidi arrangiamenti e le atmosfere che li avevano resi
grandi, magari in modo più pulito, meno orchestrale, ma non meno incisivo, in
sette tracce una migliore dell’altra, più una bonus track per i più appassionati (CONSIGLIO: ascoltate in pari
alla lettura le canzoni): la chitarra di Elephant
talk rompe il silenzio con un sound di rottura per Fripp e compagni,
scimmiottando il verso dell’elefante mentre un ritmo tribaleggiante trascina la
voce di Belew in una sorta di filastrocca in ordine alfabetico, coronato da un
meraviglioso assolo rumoristico; Frame by
frame è uno dei pezzi più ipnotici mai sentiti, come un gorgo, intrappola,
tra perfette alchimie strumentali e cambi di tempo onirici su cui la voce di
Belew e le percussioni forsennate di Bruford la fanno da padrone, provare per
credere; con Matte kudasai, il suond
frenetico si ferma, ma con una classe e un’armonia che pare di aver sentito una
sola traccia finora, ed ora si è al crepuscolo di questa prima parte… e che
creepuscolo; il risveglio (nonché chiusa del lato A) con Indiscipline è caotico, ma ordinato (ed ancora mi chiedo come
facciano a stare a tempo così perfettamente, mostruosi), e quell’”I repeat myself when under stress”
riassume tutto… “I wish you where here to
see it!”; Thela hun ginjeet segue
a nastro il rituale tribale inscenato dal Re Scarlatto, eppure così occidentale
nelle sue schitarrate ritmiche e nei suoi parlati nel mezzo della fase
stumentale, eppure così lontano dai nostri gusti, dal rock a cui eravamo
abituati (Talking Heads vi dice qualcosa ora?), eppure…; chiamare The sheltering sky “anello debole” del
disco è un’ esagerazione, diciamo piuttosto che la sonorità si spinge più ad
oriente, tornando allo stesso tempo ai tempi lunghi del prog più classico, in
una strumentale di tutto rispetto… magari ad alcuni nostalgici può anche
piacere di più; Discipline chiude
questo gioello ricordandoci e rielaborando (in modo più o meno esplicito) ciò
che abbiamo appena sentito, in una sorta di leit
motif con tanto di botti finali. Serve dire altro?
Eh,
magari sì, direte voi: “Una lista delle canzoni? Solo? Non basta la solita
wikipedia?”. Il disco è tutto qua, poche dietrologie, non c’è una trama
coinvolgente e introspettiva à la The
Wall a fare da spina dorsale, non ha avuto una realizzazione che sprofonda
nella leggenda come il Sergent Pepper’s,
ma compete con i giganti già citati per le sue canzoni. Punto di
arrivo/svolta/caduta/rinascita dei King Crimson che sia, è da ascoltare.
Fatelo, qui si gioca in serie A.
Voto:
9