sabato 25 ottobre 2014

Discipline

La fine degli anni ’70 e, conseguentemente, i primi anni ’80 furono terreno fertile per la nascita del genere New Wave, forse la corrente (non essendo un vero e proprio genere ben definito) di più ampio respiro nella storia della musica rock: da elementi post-punk, a ritmiche funky, da sperimentazioni elettroniche a sonorità tribali di stampo africano, la New Wave spaziava come mai prima d’ora, coinvolgendo artisti di estetiche completamente diverse (The Police e Devo, ad esempio, hanno ben poco di simile) e unendoli con un fil rouge che non si nota al primo ascolto, ma che emerge pian piano che ci si immerge. In un’enorme varietà di nuovi arrivi di quegli anni, anche giganti quali i King Crimson di Robert Fripp, tra le massime espressioni del prog rock di fine anni ’60, approdarono a queste sonorità, producendo uno dei più bei dischi della band stessa, nonché (e qui mi concedo una licenza) uno dei migliori di tutti gli anni ’80: Discipline, datato 1981.
La formazione, innanzitutto, vide arrivare alla chitarra e voce l’eclettico Adrian Belew, turnista dal ’77 al ’78 per Frank Zappa e dal suono veramente peculiare, al basso l’esperto Tony Levin (esecutore di eccellenze quali Peter Gabriel, il già citato Zappa e Lou Reed) che, unito al già straordinario Bill Bruford, geniale pioniere della sperimentazione percussionistica tout court nonchè ex-Yes, e al padrone di casa Fripp, formano forse la più grande formazione dei King Crimson dai tempi di In The Court Of The Crimson King e In The Wake Of Poseidon. Ci si aspettava un capolavoro, quantomeno un bel disco. Mai, nella storia del gruppo londinese, i fan furono tanto delusi e mai, a mio avviso, tanto si sbagliarono.
Freschi della collaborazione data l’anno prima al capolavoro dei Talking Heads, Remain In Light, Fripp e Belew (autore di tutti i pezzi, in collaborazione col gruppo) svilupparono un suono allora nuovo per la band. Le canzoni si fecero più agili, più martellanti, più tribali, più New Wave, appunto, senza però scordare gli splendidi arrangiamenti e le atmosfere che li avevano resi grandi, magari in modo più pulito, meno orchestrale, ma non meno incisivo, in sette tracce una migliore dell’altra, più una bonus track per i più appassionati (CONSIGLIO: ascoltate in pari alla lettura le canzoni): la chitarra di Elephant talk rompe il silenzio con un sound di rottura per Fripp e compagni, scimmiottando il verso dell’elefante mentre un ritmo tribaleggiante trascina la voce di Belew in una sorta di filastrocca in ordine alfabetico, coronato da un meraviglioso assolo rumoristico; Frame by frame è uno dei pezzi più ipnotici mai sentiti, come un gorgo, intrappola, tra perfette alchimie strumentali e cambi di tempo onirici su cui la voce di Belew e le percussioni forsennate di Bruford la fanno da padrone, provare per credere; con Matte kudasai, il suond frenetico si ferma, ma con una classe e un’armonia che pare di aver sentito una sola traccia finora, ed ora si è al crepuscolo di questa prima parte… e che creepuscolo; il risveglio (nonché chiusa del lato A) con Indiscipline è caotico, ma ordinato (ed ancora mi chiedo come facciano a stare a tempo così perfettamente, mostruosi), e quell’”I repeat myself when under stress” riassume tutto… “I wish you where here to see it!”; Thela hun ginjeet segue a nastro il rituale tribale inscenato dal Re Scarlatto, eppure così occidentale nelle sue schitarrate ritmiche e nei suoi parlati nel mezzo della fase stumentale, eppure così lontano dai nostri gusti, dal rock a cui eravamo abituati (Talking Heads vi dice qualcosa ora?), eppure…; chiamare The sheltering sky “anello debole” del disco è un’ esagerazione, diciamo piuttosto che la sonorità si spinge più ad oriente, tornando allo stesso tempo ai tempi lunghi del prog più classico, in una strumentale di tutto rispetto… magari ad alcuni nostalgici può anche piacere di più; Discipline chiude questo gioello ricordandoci e rielaborando (in modo più o meno esplicito) ciò che abbiamo appena sentito, in una sorta di leit motif con tanto di botti finali. Serve dire altro?
Eh, magari sì, direte voi: “Una lista delle canzoni? Solo? Non basta la solita wikipedia?”. Il disco è tutto qua, poche dietrologie, non c’è una trama coinvolgente e introspettiva à la The Wall a fare da spina dorsale, non ha avuto una realizzazione che sprofonda nella leggenda come il Sergent Pepper’s, ma compete con i giganti già citati per le sue canzoni. Punto di arrivo/svolta/caduta/rinascita dei King Crimson che sia, è da ascoltare. Fatelo, qui si gioca in serie A.

Voto: 9